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Le Ville

VILLA MASOTTI
(Secoli XVII – XVIII - XIX)
Villa Masotti sorge, circondata da un parco ricco di numerose essenze, su un vasto lotto compreso tra due vie del centro urbano e, separato da queste, con una cinta in ferro battuto sostenuta da pilastri di cemento e graniglia d’inizio secolo. L’attuale aspetto dell’edificio si deve all’intervento della famiglia Masotti, presenti a Pozzuolo fin dal 1682, quando acquistarono una casa da un tale Francesco Santino.
La villa si rileva un edificio dalla volumetria compatta, la cui imponenza è oltremodo elevata dalla presenza di due avancorpi laterali della medesima altezza del corpo centrale.
La facciata principale, estremamente sobria e armoniosa nelle forme, e dominata dalle simmetria e linearità: simile nella composizione alla vicina Villa Sabbatini, è caratterizzata dal ritmo equilibrato delle finestre, a partire dall’asse centrale dove trovano posto il portale d’ingresso e, al piano nobile, una porta finestra con poggiolo sormontata da un rilievo raffigurante lo stemma di famiglia.
Appartiene alla villa anche una cappella privata dedicata a santa Vittoria riconoscibile dalla strada per la presenza sulla facciata di due acquasantiere; all’interno si possono ammirare gli affreschi del soffitto, i preziosi intarsi in marmo e l’altare che custodisce le reliquie della Santa.
L’insieme comprende oltre alla villa padronale, alcune adiacenze: tra queste l’ala est che si protende lungo la via che costeggia lateralmente il parco. Questa è formata da due corpi di fabbrica contigui costruiti in epoche diverse: il primo, coevo alla villa di cui costituiva probabilmente un annesso rustico, è riconoscibile dall’ampio portone carraio che immette nella corte interna da cui si possono osservare il retro della villa e il vecchio pozzo; il secondo più sporgente è caratterizzato da interessanti finestre binate ad arco ribassato, fu costruito in epoca successiva e adibito in origine a scuderia.

VILLA GRADENIGO SABBATINI
(Secolo XVIII)

Costruita per volere dei conti Treo di Udine, la villa deve l’attuale nome a Giovanni Battista Sabbatini che, con i fratelli, l’acquistò nel 1732.
Nel 1864, la contessa Cecilia Gradenigo, vedova di Stefano Sabbatini, dispose nel proprio testamento che l’edificio divenisse sede di un benefico istituto destinato all’istruzione dei figli di agricoltori poveri. Nel 1881 prese così vita presso la villa, e presso i relativi annessi, la scuola pratica di agricoltura che, nel corso degli anni , ha assunto un ruolo importante nella formazione professionale e nella sperimentazione agraria.
Attualmente il complesso fa capo all’Ente Regionale per la Promozione e lo sviluppo dell’agricoltura. Preceduta da un ampio cortile racchiuso entro due lunghe ali che ne costituivano le adiacenze rustiche e che le esigenze funzionali della scuola hanno portato ora ad un rimaneggiamento piuttosto radicale, la villa rivela una volumetria imponente. Il corpo di fabbrica principale si sviluppa su tre piani a pianta rettangolare; la struttura distributiva, originariamente impostata su uno schema di tradizione veneta con il salone centrale passante sul quale si affacciano lateralmente i vani, ha anch’essa subito diverse modifiche. La facciata sulla corte presenta una composizione simmetrica delle aperture a partire da un asse centrale caratterizzato dal portale d’ingresso decorato con conci di pietra squadrati e con una porta-finestra, poggiolo e lunetta superiore a livello del piano mobile, e da un affresco raffigurante lo stemma della famiglia Sabbatini.
Sul lato destro della villa, inglobata a una delle adiacenze, è possibile scorgere la cappella edificata nel 1707 dagli antichi proprietari del palazzo.

L'insediamento antico

LE TOMBE DELL'ETA' DEL FERRO
L’area pianeggiante attualmente adibita a colture sperimentali fu sede della principale necropoli dell’insediamento protostorico ubicato sulle retrostanti alture dei Cjastiei. È stata esplorata sistematicamente dal 1980 al 1986 ed ha restituito circa 180 tombe ad incinerazione e due ad inumazione databili nell’ambito dell’età del ferro.
Le sepolture, per lo più assai danneggiate dai lavori agricoli, in alcune zone distrutte da bacini o fossi di età romana e recente, erano situate su di una fascia ghiaiosa nord-sud parallela al corso del Cormor ed erano disposte per lo più in gruppi, riferibili a nuclei familiari.

Le ossa dei cremati, sempre associate ai residui del rogo, secondo un rituale comune a tutte le comunità dell’area alpina sudorientale erano deposte con il corredo personale in vasi tomba, di grandissime dimensioni (dolii lisci o cordonati) nelle tombe più ricche, o in semplici buche circolari scavate nel terreno ghiaioso. Solo in un caso il dolio era protetto da una cassetta in lastre di pietra; più frequenti dovevano essere le lastre di copertura, che però raramente si sono conservate

I corredi sono indicativi dello stato sociale del defunto: erano costituiti principalmente da oggetti di ornamento, tra cui si segnalano spilloni con capocchia ad ombrellino o a globetti, fibule a drago e serpeggianti, fibule a navicella, a sanguisuga, con bottoni sull’arco, con arco laminare, bracciali, anelli, fermatrecce; assai frequenti erano inoltre, nelle tombe maschili, le armi di offesa per lo più in ferro (cuspide di lancia o giavellotto, ascia, coltellaccio) accompagnate, per i defunti di alto lignaggio, dalla bardatura equina o da elementi di essa.
In rari casi nelle tombe erano deposti, per lo più al di sopra dei resti del rogo o all’esterno del vaso tomba, servizi ceramici o anche soltanto singole tazzine, simboli del convito funebre. Solo nelle tombe di considerevole ricchezza è stato rinvenuto vasellame metallico (situle), che veniva frammentato ritualmente nel corso della cerimonia funebre.

Nel suo complesso il sepolcreto è databile tra la fine dell’VIII e gli inizi del V sec. a.C.: il suo nucleo più consistente è collocabile tra il VII e il VI sec. a.C., periodo di massima espansione dell’abitato. Le caratteristiche del rituale funebre, la presenza di armi in ferro nelle tombe, la tipologia di numerosi oggetti accomuna la necropoli - che pure rivela consistenti influenze della civiltà del Veneti antichi - a quelle dell’Austria e della Slovenia riferibili alla cultura hallstattiana dell’età del ferro.

LE TOMBE DELL'ETA' ROMANA
Scarsi reperti documentano una frequentazione della zona anche nei secoli immediatamente precedenti alla romanizzazione. Solo però a partire dal tardo I secolo a. C., quando ormai l’area di Pozzuolo è inserita in un territorio quasi completamente romanizzato, la zona pare nuovamente utilizzata per usi funerari. Tra il 1982 - 86 ed il 1990 sono state scavate infatti circa 20 sepolture ad incinerazione disposte ai margini del cimitero protostorico ed alla base del terrazzo detto di Cuppari, in gruppi databili tra la fine del I sec. a. C. e l’età di Tiberio, quando gli abitanti dovevano risiedere in una villa rustica o in un piccolo centro ancora ubicato nell’ambito del castelliere dei Cjastiei.
La maggior parte delle tombe, spesso più danneggiate di quelle protostoriche, consistono in semplici buche nel terreno in cui era deposto l’ossuario, accompagnato in alcuni casi da servizi ceramici. La copertura, non sempre conservata, era costituita da uno o più frammenti di laterizi o da una mezza anfora. Solo in un caso vi era una vera cassetta formata da tegole. Tale tipologia funeraria è attestata anche in altre necropoli del territorio di Aquileia.
Con funzione di ossuario, sono frequenti le urne di tipo Auerberg, assai comuni in Austria e Slovenia, mentre tra i recipienti di corredo figurano vasetti a pareti sottili, piatti e coppette di ceramica sigillata, alcune delle quali di produzione aretina, e coppe in ceramica grigia di un tipo originario del territorio veneto. In alcune tombe, tra le ossa combuste vi erano in qualche caso monete ma per lo più oggetti di ornamento personale, come anelli, orecchini, pendenti di vetro e fibule.
Il ritrovamento più importante è uno stilo scrittorio con inscrizione in caratteri venetici, rinvenuta in una tomba della fine del I sec. a .C. che documenta la persistenza fino alla prima età imperiale della scrittura utilizzata dalle genti preromane.

Fonte: Ministero per i beni culturali e ambientali
Soprintendenza archeologica e per i beni architettonici artistici ambientali e storici del Friuli Venezia Giulia
Itinerari della preistoria

Francesco Gorizzizzo

TESTIMONIANZA DI FRANCESCO GORIZZIZZO
Checo Mulinar classe 1901
Tratta dal libro “No vin durmide une lus”

 Nel primo anno di guerra abbiamo visto tanti militari che arrivavano in paese, si fermavano in riposo dieci o quindici giorni e poi andavano avanti, verso il fronte. In quegli anni la mia famiglia aveva un mulino e facevamo i contadini; a Pozzuolo ci sono stati quelli del 202° Fanteria, il IV Genova, il II Piemonte Reale di Cavalleria. Noi ragazzi andavamo ad aiutarli e per portare anche tutti quei materiali che servivano a fare le fortificazioni nelle zone di combattimento, ci davano cinque lire al giorno e il mangiare. In quegli anni, dal paese, si sentiva sparare da lontano, si sentivano i bombardamenti, si vedevano i palloni frenati italiani che andavano in cielo per controllare, oltre il fronte, le azioni del nemico. Quando arrivavano gli aerei austriaci, che giravano sul fronte, i palloni italiani scendevano di corsa!
Nelle giornate della presa di Gorizia andavamo a vedere tutti i combattimenti sulle colline di via dei Castelli, di notte; là potevamo vedere, il 9 agosto, tutto il putiferio, le granate, le fiammate...
Noi ragazzi dicevamo: «Dove possono trovare là un riparo quei poveri soldati?»
Qualche tempo dopo abbiamo sentito dire che gli Italiani avevano preso Gorizia e i soldati feriti che ritornavano a Pozzuolo, dal fronte, raccontavano che la guerra era proprio brutta con la pioggia, il vento, il freddo ed erano obbligati a rimanere all'aperto, sotto un cespuglio o nella trincea. Facevano venire i brividi i loro racconti! Abbiamo saputo di Caporetto perchè vedevamo molta gente che passava con le mucche, i materassi, le galline sui carri, con donne e bambini. Allora, un giorno, ho chiesto: - Ma dove andate?» - Eh... ragazzo! Proverai dopo, quello che ti potrà succedere!» mi rispondevano quelli che passavano con i carri.
Così ho capito, più tardi, che c'era stata la rotta di Caporetto anche perchè si vedevano venir giù soldati magri, sfiniti, tutti bruciati in faccia perchè i Tedeschi avevano buttato i gas. I militari in ritirata gettavano via i fucili, era la disfatta completa che veniva giù e passava per le strade del paese.
In quei giorni pioveva molto e quei poveri soldati camminavano, sempre avanti; c'è stato il periodo dal 26 al 29 ottobre del 1917 quando vedevamo venir giù soldati che occupavano tutta la strada e poi c'è stata una giornata di pausa del grande passaggio. Il 29 ottobre alcuni reparti della III Armata che arrivavano da via Mortegliano si sono fermati, nel pomeriggio, anche nel nostro mulino. Erano proprio affamati! Mia madre, allora, ha fatto per loro quelle polente che si facevano nelle famiglie di una volta, come da noi che eravamo sedici o diciassette in casa e mangiavamo quasi solo polenta. Mia madre ha preparato per quei soldati sette polente; loro hanno mangiato tutto e più tardi, verso sera, hanno ricevuto l'ordine di partire e raggiungere il paese. Dopo un paio d'ore che se n'erano andati mio padre ed io abbiamo deciso di salire in paese per vedere che cosa fosse successo; siamo partiti e quando siamo arrivati all'osteria da Missana, mio padre ha esclamato: «Ma qui, in paese, non c'è proprio niente...». Allora siamo ritornati indietro, dato che il paese era tranquillo, e sulla strada del mulino abbiamo incontrato il parroco Dall'Ava al quale mio padre ha chiesto: «Allora, signor santolo, che cosa dice, che cosa pensa?».
Il parroco gli ha risposto: «Ma, forse possiamo sperare che siano andati giù tutti i militari per la strada principale e dunque qui non ci dovrebbe essere nulla da temere...». Così, dopo aver salutato don Dall'Ava io e mio padre siamo tornati al mulino, giusto in tempo per vedere una grande confusione, tanti soldati che erano appena arrivati. Un momento dopo sono giunti anche quelli del V Novara che portavano le mostrine bianche e hanno preso in consegna il telefono che si trovava in un'officina vicino al nostro mulino. Infatti il 24 o il 25 ottobre li erano venuti due soldati del genio che avevano avuto il compito di stare al telefono. Sono rimasti al telefono finchè lo hanno lasciato in consegna a quelli del V Novara e loro se la sono data a gambe.
Per tutta la notte del 29 ottobre si sono sentite le pattuglie che venivano su e giù e anche gli spari delle fucilate; al mattino presto del giorno dopo siamo andati a vedere sulla finestra del granaio, dove si vedono ancora i colpi nel muro e all'improvviso c'è arrivata addosso una scarica di mitraglia da portarci via la testa! Siamo scesi giù, allora e proprio in quel momento ho visto arrivare un cavaliere a tutta carica. L'ho riconosciuto, era proprio Elia Rossi Passavanti, un sotto-ufficiale amico della famiglia Fantoni che abitava vicino al mulino, dall'altra parte della roggia ed era fuggita, lasciando abbandonato tutto. Questo sotto-ufficiale è arrivato, di mattina presto, il 30 ottobre, per chiedere informazioni proprio dei Fantoni e mio padre gli ha spiegato: «Sono partiti ancora giovedì! Sono andati giù per l'Italia». Allora Rossi Passavanti ha girato di nuovo il cavallo e su, di corsa, se n'è andato verso il paese. Quando è arrivato forse all'altezza del cimitero, si è scatenato il putiferio per tutta la giornata con a volte i Tedeschi, a volte gli Italiani che attaccavano. I soldati del V Novara che erano nel mulino hanno dato l'ordine di portar fuori quello che c'era per fare la barricata e mi ricordo che un po' più tardi un soldato italiano ci ha detto: «Non dovete aprire la porta del mulino, per nessun motivo!». I soldati italiani si erano disposti anche al di là della roggia e nella stalla per quel combattimento che stava diventando una cosa da pazzi! Mio padre, ogni tanto, quando c'era la sparatoria e il putiferio più grande, ci diceva: «Ragazzi, buttatevi giù a terra, buttatevi a terra!».
Verso le 15,30 o forse le 16,00 del pomeriggio, a forza di insistere, i Tedeschi sono riuciti a buttar giù la porta del mulino e sono entrati, con la baionetta puntata: "Talienisch? Talienisch?» chiedevano a noi, gridando. Allora io ho detto: «Sì, là... i Talienisch sono scappati di là.. .». Allora, dal mulino, i Tedeschi sono passati sul ponte della roggia che conduceva nell'orto vicino alla casa di Piero Fantoni. Quando sono arrivati là i nostri soldati li hanno facilmente presi prigionieri e i Tedeschi hanno buttato giù i fucili e gli zaini e si sono arresi. Un gruppo di soldati italiani del V Novara è tornato da noi con quei prigionieri, dicendo: «Avete visto come si fanno prigionieri i Tedeschi?». E io, invece, tra me e me, dicevo: «Bravo... perchè ho detto io che voi non c'eravate là, se no...». C'è stata anche un po' di pausa nel combattimento, in quel momento, ma subito dopo è scoppiato un inferno: sparatorie continue, bombe a mano; i nostri, con la artiglieria, sparavano in via dei Vieris. Verso sera hanno fatto l'ultima carica quelli del V Novara e ne è venuta fuori una baraonda incredibile con i Tedeschi che avanzavano un po' e gli Italiani che rispondevano colpo su colpo. Da un momento all'altro sono arrivati un gruppo di Italiani a cavallo, usciti da un ponte sulla roggia, correndo a tutta carica, con lo stendardo davanti. All'improvviso il cavallo che era avanti a questo gruppo di cinque o sei soldati, è caduto a rotoloni e con lui anche il cavaliere. .È morto!» ho pensato, ma in ogni caso, l'ho raccolto dalla strada e l'ho portato dentro; l'abbiamo medicato nel mulino e poi lo abbiamo messo nella stalla. Questo povero giovane aveva i gradi, sarà stato caporale o forse caporal maggiore, ma durante tutta la notte si è lamentato, ha penato, come altri feriti che erano lì, nella stalla del nostro mulino.
La mattina dopo sono arrivati due tedeschi, uno era a cavallo e l'altro lo seguiva a piedi; uno aveva tre stellette, l'altro era un semplice graduato. Hanno discusso un po' tra loro, poi uno è andato avanti, a cavallo, verso Mortegliano, quell'altro si è fermato, da noi, nel mulino. Ha prima incominciato a curiosare dalla parte dell'abitazione di Pieri Fanton; guardava di qua, guardava di là, ha intravisto una porta che era chiusa e allora, per aprirla, ha dato un grande calcio ed è così passato, arrivando anche nelle nostre camere. io, come uno sciocco, gli andavo sempre dietro. Questo militare tedesco è sceso dai piani superiori ed è entrato in casa dove i porta-feriti stavano portando via i feriti tedeschi; ci ha fatto capire che voleva andare a vedere l'interno dell'officina elettrica e anche se mio padre gli aveva spiegato che non era lui il padrone di quel locale, il tedesco gli ha imposto di seguirlo e mio padre ha dovuto cedere. Con un calcio alla porta il militare è riuscito a passare anche la stanza sulla roggia e a continuare la perlustrazione con mio padre davanti, un paio di Tedeschi dietro e io dietro a loro. Arrivati nell' officina loro guardavano da ogni parte e sono andati a vedere anche la stanza più piccola, che si trovava in fondo. Proprio laggiù hanno trovato il telefono e allora hanno incominciato a gridare; un graduato tedesco ha anche mollato due grandi sberle a mio padre forse perchè pensava che nel momento della battaglia ci fossero stati dei collegamenti tra il V Novara, che era nel mulino, e il centro del paese dove si trovavano gli altri reparti italiani. lo sono subito scappato fuori di corsa da là e sono andato a chiamare lo zio Giovanni Odul, dicendogli: «Zio, zio! Stanno picchiando mio padre nell'officina vicino al mulino!». io ero molto sconfortato e lui, poveretto, forse anche per questo è venuto fino al mulino per vedere quello che stava succedendo. Ma, quando è entrato nell'officina, un tedesco gli ha dato una bastonata sulla schiena e lo ha buttato giù, lungo disteso, per terra. Mio zio, comunque, è arrivato a scappare, ma mio padre, invece, non ce l'ha fatta e così, subito dopo, i Tedeschi lo hanno portato di nuovo fuori, hanno ripassato il ponte sulla roggia, con me sempre dietro.. Sono entrati nel mulino, dove stavano lavorando ancora alcuni portaferiti; più avanti hanno incontrato mia madre che aveva in braccio mia sorella Vitalina ed era incinta. Mia madre ha chiesto a mio padre che era diventato bianco come una pezza: «Dove vai, Blas?». Lui era senza parole e forse sapeva già del suo destino.
Ad ogni modo il gruppo con mio padre, i Tedeschi e me sempre dietro ha continuato a procedere; quando poi è arrivato agli scalini che portavano giù, verso la stalla dei cavalli, uno dei militari si è girato di colpo verso me, ha estratto la pistola e ha fatto come per spararmi. Mi è venuto come un po' di svenimento, mi sono fermato e sono scappato indietro salendo le scale che portavano nelle camere. Sono entrato in quella di mio padre che aveva una finestra che dava sulla strada in direzione di Mortegliano; mi sono affacciato fuori e proprio in quel momento ho visto ammazzare mio padre. Allora, di nuovo, sono sceso, di corsa; in casa avevano sentito sparare e mia madre mi ha chiesto: "Che cos'è successo, Checo?». "Ah, niente... niente...! ' le ho risposto io. Mi sono allontanato di corsa dal mulino e sono scappato in paese, saltando morti, saltando ostacoli, saltando cavalli colpiti e a terra di qua o di là, lungo la strada. Quando sono arrivato all'altezza dell'abitazione di Meni Menai non ho potuto procedere oltre, perchè c'erano ancora le barricate a chiudere la via. Sono andato allora da dietro gli orti, dalla parte del cortile dei Minighin e ho rotto la palizzata, entrando nella casa dove abitava Vigj Garzel con i figli dei quali ero amico. Il padre di questi ragazzi mi ha visto arrivare tutto sconvolto e, allora, mi ha chiesto: "Che cos'hai, che cosa ti è successo, Checo?». lo ho raccontato tutto quello che avevo visto nel mulino e gli ho chiesto: "Portatemi da mia zia Itala, perchè non ne posso proprio più!»
Dopo la morte di mio padre, comunque, i Tedeschi ci hanno rispettati e hanno mandato nel mulino le guardie: guai a chi veniva per farci dispetti! Nel paese i Tedeschi andavano a requisire e portavano via le mucche, i cavalli, i maiali; noi, ad esempio, che avevamo quattro mucche e due cavalli, siamo rimasti con una mucca sola. Avevamo anche una manza che avevamo nascosto in un fosso in fondo a Bresc, in mezzo alle acacie; andavamo a portarle da mangiare di notte, quando nessuno ci poteva vedere. Dopo l'arrivo dei Tedeschi, nel 1917 , il nostro mulino funzionava con la tessera e così anche quello del borgo di via S. Maria; ma quella famiglia che ha avuto una spiata fatta ai Tedeschi, era stata accusata dal loro comando di aver venduto più farina del consentito alla povera gente del paese e così i Tedeschi hanno chiuso quel mulino.
Io sono stato costretto a lavorare giorno e notte per accontentare sia i Tedeschi, sia la popolazione. La gente del paese veniva anche di notte; arrivavano contadini a macinare anche da S. Maria. Per tentare di far scacciare la fame a questa povera gente impiegavo qualche giornata in più per servire i Tedeschi e, intanto, accontentavo anche il popolo.
Arrivavano anche di notte con le carriole, che avevano sotto un po' d'erba, nel mezzo granturco, sopra altra erba per nasconderlo e così, dopo essere stati al mulino, potevano tornare a casa con un po' di farina per i loro figli.
Ricordo che nei primi giorni di ottobre del 1918, forse verso l'una e mezza dopo pranzo, abbiamo visto volare degli aerei sulla zona vicina al mulino; volavano piuttosto bassi e noi li abbiamo salutati; dagli apparecchi hanno risposto al saluto e allora abbiamo capito che erano i primi Italiani che ritornavano! Siamo andati su, nel paese, e abbiamo visto arrivare le truppe italiane a cavallo da via Carpeneto. Il comando tedesco era, quella volta, di fronte alla posta attuale, nel locale dove si teneva anche la frasca. Quando gli Italiani sono arrivati è uscito di lì un sottotenente tedesco e il primo cavaliere italiano, davanti al resto dello squadrone, gli ha dato la mano, si sono abbracciati e insieme hanno esclamato: «Guerra finita! ».

L'insediamento antico sui Cjastiei

  I primi saggi di scavo a Pozzuolo, organizzati dall’Istituto di Archeologia dell’Università di Trieste, furono condotti nel 1979, in una zona di pianura sita sulla sponda ovest del torrente Cormor (località Braida Roggia, area A), non lontana dai due castellieri a terrapieno noti come “i Cjastiei” e “la Culine”. L’indagine mise in luce vari livelli ricchi di ceramica e di resti di pasto costituiti da ossa di bovini, maiali e caprovini, pertinenti ad un’area soggetta alle piene del corso d’acqua che era stata usata dal Bronzo Recente al Finale (ca. XIII-X sec.a.C.): qui, al riparo di tettoie sorrette da pali (documentati da numerose buche rinzeppate da ciottoloni), si svolgevano attività produttive secondarie, legate alla preparazione del cibo. Nell’inoltrato X sec.a.C., dopo una rovinosa inondazione che diffuse in tutta l’area una coltre di ghiaia, il sito fu abbandonato; solo alquanto più tardi ampi tratti della piana attraversata dal Cormor furono usati per seppellire.
A partire dal 1980 le indagini furono estese a varie altre zone del circodario. Sull’altura dei Cjastiei (area E), a nord-ovest del paese attuale, nel periodo più antico (età del bronzo recente) la frequenta-zione è documentata finora solo da frammenti ceramici senza resti di case o di altre strutture connesse; tuttavia appare verosimile che fin da quell’epoca (per la quale la documentazione più cospicua proviene da Braida Roggia) l’abitato vero e proprio si trovasse sull’altura.A partire dal 1979 una serie di campagne di scavi e di ricognizioni condotte dall’Università di Trieste, poi affiancata dalla Soprintendenza Archeologica del Friuli-Venezia Giulia e dall’École Française di Roma, ha portato in luce sporadiche tracce di una frequentazione molto antica, risalente al periodo eneolitico (ossia agli ultimi secoli del III millennio a.C.), ma soprattutto ha rivelato l’esistenza di un articolato complesso abitativo di epoca protostorica - uno dei più importanti e allo stato attuale forse il meglio conosciuto del Friuli preromano - che prosperò, con alterne vicende, dall’età del bronzo recente (XIII sec.a. C.) all’evoluta età del ferro (V sec.a.C.), e fu poi frequentato nuovamente in epoca romana (dal II-I sec.a.C. fino al IV d.C.) e nell’alto medioevo.

Qui, nel settore nord della spianata, sono stati individuati un piano d’attività spalmato di argilla scottata che sorreggeva vasi da cucina, un acciottolato usato come sottofondo di pavimento, buche per pali e frammenti di malta d’argilla usata per battuti pavimentali e rivestimento di pareti: questi resti sono riferibili ad abitazioni in uso tra l’età del bronzo finale e l’iniziale età del ferro (dalla fine del XII al IX sec.a.C.).
Tra i resti databili nell’epoca successiva (VII-VI sec.) vi sono alcune grandi buche rettangolari che nel corso degli anni ebbero molteplici utilizzazioni, almeno in parte di tipo produttivo; di esse una sola è stata interamente scavata.

Il villaggio, dapprima non provvisto di difese artificiali, nel IX secolo ricevette una massiccia fortificazione a terrapieno, che fu poi più volte rimaneggiata: il nucleo più antico di questo struttura è costituito da un particolare tipo di terreno argilloso (il cosiddetto “ferretto”), ricavato da fossati scavati all’interno del ripiano.
Uno di questi fossati è stato individuato nel settore sud dei Cjastiei, anch’esso indagato nei primi anni ‘80: lo scavo delle falde che lo riempivano, accumulatesi nel corso dei secoli fino a colmarlo completamente in età romana, ha dato una considerevole quantità di manufatti e di informazioni, che in parte compensano il fatto che i vicini livelli d’abitato siano stati in massima parte cancellati dalle più tarde vicende del sito e dai lavori agricoli.

Durante l’età del ferro la sponda di questo fossato fu più volte consolidata mediante un complesso sistema di pali e ciottoloni per evitare che i contigui piani di attività e i pavimenti delle case, impostati su terreni limosi, franassero per le infiltrazioni di acqua piovana e finissero all’interno della depressione (il che però ogni tanto si verificava ugualmente). In questa zona la vita durò dal IX al VI-V sec.a.C, come ci dimostrano gli abbondanti materiali recuperati. Per i primi due secoli (IX-VIII) il ritrovamento di residui di fusione, oggetti di bronzo talora non finiti (piccoli attrezzi, coltelli, spilloni, ecc.), alcune matrici di pietra e una quantità di corna grezze o in corso di lavorazione (di bue, capra e soprattutto cervo) dimostra l’esistenza di officine metallurgiche affiancate a laboratori in cui si producevano manufatti di corno o, più raramente, di osso, che spesso servivano a completare gli attrezzi metallici (per esempio impugnature di coltelli).

I frammenti ceramici, raccolti in gran quantità, insieme a resti di pasto costituiti da ossa di animali domestici e ad accessori destinati ad attività casalinghe come la tessitura e la filatura (fusaiole e ciambellette di terracotta), attestano la presenza di abitazioni accanto agl’impianti artigianali.

Nel corso dell’VIII secolo a.C. questa fase di considerevole sviluppo terminò con un esteso incendio, le cui tracce, ancora una volta, non sono state individuate in posto ma in giacitura secondaria dentro al fossato. Subito dopo la sponda fu ricostruita e consolidata e la vita presso il fossato riprese, però cessarono in questo settore dell’abitato le attività produttive, evidentemente trasferite altrove.
Più tardi (tra VII e VI sec.a.C.) la fortificazione fu potenziata sul versante interno da una spessa falda di terreno limoso e il villaggio venne ampiamente rimaneggiato. Questa nuova fase di sviluppo è contrassegnata da una notevole espansione delle strutture abitative e produttive, non solo all’interno delle difese ma anche all’esterno, sul terrazzo situato a sud-ovest dei Cjastiei, denominato Campo Cùppari (area D), dove sono stati indagati i fondi di dieci fosse quadrangolari, simili a quelle individuate nel settore nord del ripiano fortificato, da cui provengono numerosi recipienti in ceramica.

Dopo un lungo periodo di crisi economica e demografica durato dal V al II-I sec.a.C., nell’epoca dell’avvento dei Romani il ripiano dei Cjastiei fu radicalmente ristrutturato, livellato e adibito ad insediamento rustico, una specie di fattoria fornita di magazzini per derrate. Successivamente (tra il I sec.a.C. e il I d.C.) l’area venne nuovamente ripianata con le macerie delle costruzioni di età romana e destinata a fini agricoli. Più tardi, in epoca tardoromana o altome-dievale, sul margine settentrionale della fortificazione protostorica sorse una piccola costruzione con muri fatti di ciottoli e frammenti di tegole romane cementati da malta biancastra, che era verosimilmente completata in elevato da una struttura lignea: l’edificio, addossato per tre quarti al terrapieno e aperto verso nord, era forse posto a guardia del sottostante guado del Cormor.
Il terrazzo di Cùppari venne invece adibito in età altomedievale ad area sepolcrale.

Fonte: Ministero per i beni culturali e ambientali
Soprintendenza archeologica e per i beni architettonici artistici ambientali e storici del Friuli Venezia Giulia
Itinerari della preistoria

L'insediamento neolitico

  L’ampio terrazzo di origine tettonica noto come “i Cueis” di Sammardenchia costituisce l’area principale di un vasto insieme di villaggi riferibili al Primo Neolitico (4500-4000 a.C.).
Su una superficie di oltre 600 ettari sono state infatti messe in luce tracce di sottostrutture antropiche e raccolti materiali ceramici, in selce scheggiata e in pietra levigata.
Gli abitati di questi primi agricoltori-allevatori popolarono quest’area per alcuni secoli, praticando una sorta di agricoltura itinerante con lo spostamento periodico delle sedi alla ricerca di nuovi terreni da mettere a coltura, ricoprendo con le loro testimonianze tutto il territorio del comune di Pozzuolo del F. e, in parte, di quelli limitrofi. La superficie complessiva interessata dai rinvenimenti fa di Sammardenchia il più vasto insediamento neolitico dell’Italia settentrionale.

Nell’area dei Cueis sono in corso dal 1985, a cura del Museo Friulano di Storia Naturale e dell’Università di Trento con la collaborazione dell’Amministrazione di Pozzuolo del F., estese indagini stratigrafiche.
Sono state ad oggi scavate oltre 130 strutture preistoriche.
Si tratta generalmente di pozzetti cilindrici interpretati come silos sotterranei per la conservazione dei raccolti e successivamente colmati con i rifiuti degli abitanti dei villaggi.
Il loro riempimento si presenta generalmente di colore nero, ricco di sostanza organica, carboni, frammenti ceramici e manufatti litici. Si stimano a circa 5000 le sottostrutture preistoriche esistenti.
Si trova attualmente in fase di scavo una grande struttura (126) di oltre 120 mq di superficie e marginata da una canaletta, forse interpretabile come abitazione.
È ancora in corso di verifica la presenza di un vicino fossato preistorico, parzialmente cancellato dallo scavo di una struttura di drenaggio di età recente.
I materiali recuperati nel corso degli scavi e grazie alle raccolte di superficie permettono di ricostruire il quadro economico e culturale delle comunità neolitiche di Sammardenchia.
Nell’industria ceramica abbiamo una sintassi decorativa estremamente ricca (semplici linee incise, motivi a gancio, a spina di pesce, bande e figure angolari, fasci di pittura rossa e bruna) che si esprime su scodelle, piatti, vasi a fruttiera, tazzine carenate, boccali ansati e vasi ad alto piede cavo.

Sono inoltre presenti vasi d’importazione dalla cultura padana di Fiorano, decorazioni con affinità centrodanubiane, forme vascolari e motivi meandrospiralici che permettono di istituire rapporti con la cultura dalmata di Danilo, probabilmente mediati attraverso il Carso triestino.
Lo strumentario in selce scheggiata annovera grattatoi, troncature, punteruoli, geometrici ottenuti con la tecnica del microbulino, lame ritoccate.
L’analisi microscopica di questi strumenti ha permesso di ricostruirne le funzioni: per tagliare e forare legno o pelli, per grattare, come elementi di falcetto per la raccolta dei cereali o del foraggio.

Gli elementi in selce erano probabilmente montati su manici di legno, inseriti in serie fissate con l’ausilio di collanti naturali quali mastice o resina.
Risultano complessivamente recuperati oltre 300.000 manufatti in selce.

Abbiamo inoltre 300 manufatti in pietre verde levigata: asce e accette di varia forma e dimensioni, scalpelli a doppio tagliente, asce-scalpello danubiane, bracciali-anelloni, pendenti forati.
L’analisi della provenienza delle materie prime conferma e arricchisce la trama dei rapporti intercorsi tra le comunità neolitiche friulane e quelle di altre regioni.
Oltre il 50% della selce risulta infatti provenire dal Veneto orientale, mentre le pietre verdi sono per oltre il 70% riferibili a fonti delle Alpi Occidentali (Piemonte). Nel nostro sito giungevano anche manufatti in ossidiana dalle isole Lipari e dai Carpazi.
Le datazioni, eseguite con il metodo del C14 sui carboni raccolti nelle strutture, indicano come già a partire da almeno la metà del I millennio a.C. in cronologia non calibrata l’area dell’Alta Pianura friulana fosse punteggiata dai villaggi di questi agricoltori.
Il mondo ideologico e spirituale di queste popolazioni ci ha invece rivelato dal ritrovamento a Sammardenchia di due venerine in terracotta, testimonianze di una matrice culturale comune con l’area balcanica ove questi oggetti sono particolarmente diffusi.

Di particolare importanza il ritrovamento di una tazza carenata di tipo Fiorano associata ad un esemplare di “ceramica falloide”, oggetto cultuale proprio della Dalmazia.
Lo studio dei carboni ci permette di immaginare per questi villaggi neolitici uno scenario in cui aree agricole si aprivano in mezzo a più ampi boschi ove prevaleva la quercia caducifoglie, l’ontano, l’acero e il frassino.
Estesi noccioleti fornivano i loro frutti spontanei (sono infatti centinaia i resti di nocciole rinvenuti all’interno delle strutture scavate).
Erano oggetto di raccolta anche la mora da rovo e la ghianda. Le attività produttive vedevano la pratica di una coltura policerealicola (orzo, farro e piccolo farro) associata ad una più modesta orticoltura (piselli, lenticchie e fave).
È probabile che i campi agricoli venissero cintati con siepi di piante spinose.

Fonte: Ministero per i beni culturali e ambientali
Soprintendenza archeologica e per i beni architettonici artistici ambientali e storici del Friuli Venezia Giulia
Itinerari della preistoria

 

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