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No vin durmide une lus

INTRODUZIONE
Aghe di Poç e il gruppo di Pozzuolo del Comitato Friu1ano per la Pace hanno realizzato questo volume soprattutto come una necessaria e non più rinviabile ricercadocumentazione sulla vita della popolazione nel nostro paese durante gli anni della «Grande Guerra», tra il 1915 e il 1918.
Si tratta di venti testimonianze raccolte tra le donne e gli uomini di Pozzuolo, allora poco più che bambini o adolescenti, che ci consegnano un ricco patrimonio storico e culturale il cui valore, ci auguriamo, possa essere compreso soprattutto dalle giovani generazioni. La nostra ricerca, iniziatasi nel 1981 e conclusa ne1 1987, segue la cronologia delle interviste raccolte e dopo ogni testo in lingua friu1ana c'è la corrispondente traduzione in italiano.

Molto spesso le testimonianze sono state raccolte ponendo delle domande ai nostri interlocutori: in qualche caso, invece, è bastato dare il via alla registrazione per poter ascoltare racconti precisi, minuziosi, completi, a più di settant'anni da quegli avvenimenti. Nella quasi totalità dei casi non si è avuto un unico incontro con i singoli protagonisti, ma vari contatti per chiarire, approfondire, collegare le diverse fasi delle testimonianze. Ci è sembrato inutile riportare le domande che avevamo posto; abbiamo pubblicato, invece, solo le risposte, dando un ordine cronologico ai ricordi, collegati tra loro come se si trattasse di un unico racconto che ha un proprio filo logico completo. La scelta della traduzione in lingua italiana delle singole interviste (rilasciate tutte in quella friu1ana) ci è sembrata necessaria, anche perchè una parte degli intervistati ce ne ha fatta richiesta per la difficoltà, da parte loro, a leggere un testo nella lingua con cui, quotidianamente, parlano. È certo questa una
grossa contraddizione che, speriamo, una crescita qualitativa di testi scritti in lingua friulana possa contribuire a ridurre. Per quanto riguarda, nello specifico, il testo friulano del volume, l'unico intervento che abbiamo operato sul materiale raccolto è stato quello di modificare alcuni italianismi che, molto probabilmente, sarebbero stati
presenti in misura molto minore se le interviste fossero state fatte tempo addietro.
In generale, comunque il testo, sia in friulano che nella traduzione non meccanicamente riportata in italiano, è rimasto il più possibile fedele alle testimonianze raccolte. Vogliamo chiarire, però, che in questo libro non può essere ricercata la fredda e minuziosa ricostruzione cronachistica dei fatti bellici tra il 1915 e il 1918 a Pozzuolo
del Friuli; ma vi sono, invece, le paure, i timori, le profonde angosce, i momenti di vita quotidiana familiare e sociale, le speranze di vera pace tra popoli vicini e amici, un profondo senso di pietà umana. È insomma, un quadro diverso, non retorico, di come quelle donne e quegli uomini, tutti delle classi popolari, abbiano affrontato la cultura di morte prodotta dalla guerra e ci abbiano trasmesso, nel loro raccontare, una lezione di vera cultura di pace che meritava un giusto, anche se talvolta tardivo, riconoscimento.
La guerra, col suo meccanismo implacabile, modificava non solo economie, territori, aspetti anche esterni di grandi e piccoli centri del Friuli come Pozzuolo, ma cercava di mutare, con una costante propaganda, la coscienza popolare, indicando in altri uomini dei nemici da combattere ed uccidere. Le testimonianze di queste donne e di questi uomini ci dimostrano, invece, come anche nel nostro territorio, l'atteggiamento delle classi popolari sia stato, tra il 1915 e il 1918, quello di chi vede nel soldato austriaco, tedesco, italiano soprattutto un pover'uomo affamato, stanco, pieno di pidocchi, lontano da casa che, molto spesso non sapeva realmente dove stesse andando o, meglio, dove lo stessero mandando. L'estraneità alla guerra ci sembra evidente in tutti gli aspetti delle testimonianze qui raccolte che rivelano pure il ruolo fondamentale, da ogni punto di vista, svolto dalle donne a Pozzuolo in quei tre anni di economia di guerra.
Il materiale fotografico, patrimonio sia di Aghe di Poç che dell 'Archivio comunale di Pozzuolo del Friuli, è esso stesso parte integrante di questa ricerca-documentazione ed accompagna le testimonianze con immagini che chiariscono il quadro sociale e territoriale in cui si svolsero gli avvenimenti.
Il prof. Lucio Fabi, ricercatore del Museo della guerra di Gorizia, ha svolto, nella premessa al libro, un approfondimento delle principali tematiche che emergono dalle testimonianze qui raccolte, riuscendo a cogliere interessanti motivi di riflessione non solo sul rapporto tra popolazione civile e «Grande Guerra», ma anche sui meccanismi che presiedono alla memoria collettiva popolare.
Un ringraziamento particolare per l'attento e intelligente lavoro di collaborazione per il testo friulano vada allo scrittore Gianni Gregoricchio; si ringraziano per il contributo alla correzione del testo italiano la prof. Berta Dolso e per l'importante raccolta del materiale fotografico Mauro Duca e l'Archivio comunale di Pozzuolo del Friuli.
Ricordando, inflne, che l'idea e la composizione grafica della copertina sono di Gianni Cogoi, vogliamo esprimere la nostra gratitudine a tutti coloro che ci hanno concesso di raccogliere le loro testimonianze, permettendo cosi la realizzazione concreta di questo volume.

Gruppo di Ricerche Storiche Aghe di Poç
Comitato Friulano per la Pace

 
C'ERA UNA VOLTA UNA GUERRA...
A Pozzuolo del Friuli, la Grande Guerra cominciò il 30 ottobre 1917. L'aveva annunciata, qualche giorno prima, il flusso dei profughi e dei soldati sbandati, proveniente da Caporetto e dalle zone limitrofe. Nell'affanno di quelle ore, Cadorna stabilì una linea d'arresto a sud di Udine che passava per Campoformido, Pozzuolo e Mortegliano, a protezione dei ponti sul Tagliamento ed a copertura della ritirata della III Armata del Carso: lo scopo era rallentare l'avanzata degli austro-tedeschi. Dopo alcune scaramucce, alle prime luci del 30 ottobre i due eserciti (il Genova
e il Novara cavalleria e due battaglioni della brigata di fanteria Bergamo da una parte, truppe della 117a Divisione germanica e della la Divisione austro-ungarica dall'altra) entrarono - come si dice - «in contatto». In mezzo, il paese e la gente di Pozzuolo, quasi al completo: solo pochi erano riusciti a trovare scampo oltre il fiume; la maggioranza dei paesani fuggiaschi ritornò terrorizzata alla vista dei tanti carri civili rovesciati nei fossi dai militari «in ripiegamento».
La gente di Pozzuolo si trovò la guerra in casa.
Dopo settant'anni, il ricordo di quel giorno rimane ancora saldamente impresso nella mente di chi allora era ragazzo o adolescente. Non potrebbe essere altrimenti: un evento terrificante, estraneo, irreale nella sua dolente concretezza, respira e vive con i testimoni, accompagna i passi ed i momenti della loro esistenza. Non contraddice ma sottolinea questo processo il fatto che alcuni intervistati abbiano confuso episodi vissuti nella prima guerra mondiale con altri vissuti nella seconda guerra mondiale: semmai, questi corto circuiti della memoria rafforzano il senso di evento epocale assunto dalla guerra, (da tutte le guerre) per chi è costretto, si trova in mezzo, sceglie di viverla.
La gente di Pozzuolo ebbe inoltre il triste privilegio di sperimentare una situazione tanto anomala nella prima guerra mondiale, quanto usuale nella seconda: la battaglia per le strade, dentro le case e le corti. Venne cioè in contatto con la cosiddetta «guerra guerreggiata» a cui non erano avvezze nemmeno le popolazioni rimaste a ridosso del fronte carsico, separate dalle linee delle trincee da una esigua porzione di terreno che però aveva la capacità di rendere estranea e quindi incomprensibile, ai civili, l'esperienza vissuta dai soldati. Può a prima vista sembrare paradossale che, a ridosso del fronte, la gente non si rendesse conto fino in fondo dell'entità della tragedia vissuta dai soldati. Eppure, dalla lettura dei diari, delle testimonianze, delle memorie e dei ricordi che ancor oggi, ad un attento scavo, emergono, si ricava un dato estremamente chiaro nella sua drammatica coerenza: pure a contatto con gli orrori e le asprezze di un evento subito, i civili, ed in particolare fra essi contadini, operai, braccianti e piccoli artigiani - in una parola i ceti popolari - rimangono in gran parte tenacemente attaccati, per un estremo istinto di sopravvivenza, alla propria casa ed alla propria terra; a ritmi, abitudini, convincimenti, che tentano per quanto possibile di conservare. Mentre il soldato fa la guerra (fino a quando interviene una ferita, una cattura, una fuga, una morte: cioè fino a quando diventa un non-soldato), il civile, al di là di qualsiasi posizione patriottica, subisce la guerra: la può certo volere fortemente, ma non può fare altro che viveri a in una forma passiva. È questo il senso ultimo di una incomunicabilità attraverso la quale si possono legger innumerevoli episodi atroci, paradossali o soltanto ironici propri del rapporto tra i soldati e civili; incomunicabilità
che del resto emerge chiaramente anche dall'altra parte quando, ad esempio, il soldato non riesce (fatto anche questo ampiamente documetato dalla diaristica di guerra) a scrivere a casa sulle reali condizioni in cui si trova a vivere.
A causa di questo tipo di incomunicabilità, anche la gente di Pozzuolo, pur trovandosi dentro la battaglia, dentro la guerra, subisce la guerra, non fa la guerra. Si collabora con i soldati italiani all'erezione delle barricate - come narrato da numerose testimonianze - per difendere la casa, la stalla, il paese; così come si dà da mangiare, con le poche risorse, al soldato italiano affamato ed al soldato tedesco affamato, quasi che l'offerta del cibo abbia il potere di esorcizzare (ma invece le approfondisce) le differenze tra chi un momento prima era proprietario di tutto e tra chi ormai è diventato il nuovo proprietario di tutto, delle cose come delle persone, di cui dispone secondo logiche spesso incomprensibili.
L'incomprensione, l'incomunicabilità, vengono lette drammaticamente nella testimonianza di Checo Mulinar, che al mulino (ritorna ancora una volta il simbolo principale della civiltà contadina) vede uccidere dai tedeschi il padre mugnaio perchè al mulino aveva installato un posto telefonico la cavalleria italiana. La testimonianza, stremamente dettagliata fino al momento immediatamente precedente all'uccisione, precipita in una eloquente laconicità: «Vado sulla finestra e proprio in quel momento vedo ammazzare mio padre». Uguale laconicità
ritroviamo nelle parole della sorella, Concette Mulinarie: «sono passati di lì i Tedeschi e hanno ammazzato mio padre», che non riesce a comprendere come si possa uccidere un uomo soltanto perchè in casa sua c'era il telefono, e giunge a reinterpretare il fatto, in verità abbastanza usuale in circostanze analoghe per la logica militare: «Hanno detto che erano briganti quelli che avevano ammazzato così: non meritava d'essere ucciso mio padre».
Accanto ad una serie di drammatici momenti tragici, di morte, emerge dalle interviste una marea di ricordi tenacemente legati alle abitudini quotidiane, al lavoro, al raccolto ed alle bestie, alla «fame» di tutti vista come unico nemico da combattere. Ricordi di guerra che esprimono aspirazioni di pace, tanto complessi, avvincenti ed articolati da rendere impossibile una presentazione anche sintetica. Al lettore scoprire la ricchezza e l'originalità delle testimonianze raccolte, che giustamente si allineano al sempre maggior numero di fonti popolari sulla Grande
Guerra e sulle guerre in genere che emergono grazie ad una rinnovata sensibilità di ricercatori e trovatori di memorie, diari, ricordi ed immagini dimenticate; da parte mia una sola raccomandazione: leggete le pagine che seguono anche come testimonianza collettiva di una comunità di fronte ad un evento traumatizzante, che per uscirne elabora percorsi, soluzioni, strade diverse, tortuose, a volte apparentemente incomprensibili, ma sempre guidate da aspirazioni ben precise e riconoscibili. Gli stessi ricordi, a noi pervenuti sotto forma di interviste, fanno parte di questo complessivo sistema di sopravvivenza, prodotto dalla comunità a livello individuale e collettivo. Non sono i fatti ad essere raccontati, ma quello che i fatti hanno prodotto e successivamente sedimentato nella memoria di chi li ha vissuti. La guerra vissuta e raccontata da una piccola comunità di bambini ed adolescenti, attraverso gli occhi ed i ricordi di nonni-bambini, per i quali la guerra è un sogno, qualche volta un incubo, sempre
comunque «proprio una scena da film» (L. De Cecco). Un film dalla trama sempre diversa, in cui si può vedere la sanguinosa guerra tra le case, l'avvicendarsi di soldati, la crudeltà dei vincitori e la tragedia del maggiore italiano fucilato dai suoi soldati, oppure la convivenza stentata, dificile, paziente e qualche volta allegra con i nuovi padroni «Tedeschi», che ad esempio, visti attraverso gli occhi di una operaia di nove anni entusiasta della sua nuova condizione, assumono un aspetto ben diverso da quello solitamente riconosciuto ad un «nemico»: «Io, quando c'erano i Tedeschi, sono andata nella filanda [...]. Noi eravamo così orgogliose! Non avevamo più paura dei Tedeschi, noi bambine dicevamo: Che buoni che sono i Tedeschi! Dicono che son cattivi, ma vedi che fette di pane ci danno!» (Ines Blancje).

Lucio Fabi
Gorizia, 24 ottobre 1987

 

 

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