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Elia Rossi Passavanti

LA CAVALCATA EPICA DI ELIA ROSSI PASSAVANTI

29 ottobre 1917: .... sono circa le cinque del pomeriggio quando un gruppo di dragoni entra al galoppo in Pozzuolo del Friuli: si tratta del I plotone del 1° squadrone del "Genova " che precede in avanscoperta il grosso del reggimento. Lo comanda il sergente Elia Rossi Passavanti, un valoroso che porta sul petto i nastrini di due medaglie d'argento. Le strade sono deserte, le finestre chiuse, le porte sbarrate, perché già un nucleo motorizzato nemico tiene il paese sotto il tiro delle mitragliatrici. Ma Passavanti non vi dà peso; ha il compito di esplorare la strada che conduce a Udine e quindi, lasciato il comando dei suoi trenta dragoni a un caporale, si avvia tutto solo, al piccolo trotto sulla sua cavalla Vienna, mentre la pioggia continua a cadere fastidiosa e insistente.



Non ha fatto molto cammino, quando, a una svolta, deve all'improvviso rallentare l'andatura e fermarsi: nella conca leggiera che il ciglio della strada contorna, gli è apparsa una marea di soldati con l'uniforme grigio azzurra, di cannoni, di autocarri, di cavalli.
Subito una raffica si abbatte sulla strada. La cavalla con una impennata e un alto nitrito forza la mano al cavaliere e si lancia ventre a terra verso Pozzuolo del Friuli. Ma appena fuori dal tiro rallenta, inciampa, tenta addirittura di fermarsi, ansimando. Passavanti non sa capacitarsi di un simile strano comportamento e, visti vani gli incitamenti, deve, per la prima volta con la sua Vienna, usare gli speroni e persino colpirla a piattonate con la sciabola se vuole farle riprendere il trotto e rientrare a Pozzuolo.
Nel frattempo è arrivata in paese l'intera brigata, in piazza Julia il generale Emo Capodilista e i due colonnelli attendono il sergente esploratore che, senza scendere da cavallo, fa il suo rapido rapporto. Partono immediati gli ordini.
Soltanto allora la povera Vienna stramazza, trascinando nella caduta il cavaliere. Quando questi si rialza, può finalmente rendersi conto che la fedele compagna ha compiuto fino all'ultimo il suo dovere perché ha un orribile squarcio nel petto e il sangue che ne esce già dilaga in larga pozza sul selciato.
Le ore che seguono, della sera del 29, della notte, e della giornata del 30, sono quelle, ormai consegnate alla storia, della sanguinosa, gloriosa difesa di Pozzuolo del Friuli. Quello che fa Passavanti in quell'inferno è coerente col suo passato: sempre calmo, sempre lucidamente sereno, si batte sulle barricate, sor regge i suoi uomini con l'esempio, rincuora i feriti e i morenti; vedendo in pericolo il colonnello Bellotti, comandante del suo reggimento, gli fa scudo e riceve in sua vece la pallottola che poteva ucciderlo; poi, dopo una sommaria medicazione, torna a combattere.
Verso le 17,30, quando già più di metà dei nostri sono morti o feriti, il comandante giudica assolto il compito assegnato alla sua brigata ed ordina ai superstiti di rimontare a cavallo per tentare di forzare la cerchia nemica. Fra il fragore dei colpi e i lamenti dei feriti suona il buttasella.
Ha cessato intanto di piovere e un pallido sole illumina il tramonto. E' in questo preciso momento che per Passavanti succede il peggio. Una granata scoppia a pochi passi da lui; egli avverte come una tremenda mazzata, barcolla e perde i sensi. Quando, poco dopo, come risvegliandosi da un incubo, riprende conoscenza, un velo caldo di sangue gli cola sul viso dalle ferite che le schegge hanno aperto ancora una volta nella sua fronte. Ma non è solo il sangue ad annebbiarlo: proprio non ci vede più.
Lo prende il terrore di essere rimasto solo nel paese invaso dal nemico. Non è cosi, invece; sente avvicinarsi lo scalpitio di alcuni cavalli lasciati liberi; gli pare di riconoscerne uno dal nitrito e lo chiama: " Quò..., Quò... ". L'animale, docile, gli si ferma accanto e Passavanti riesce a issarsi in sella. Quò è un generoso maremmano del suo squadrone, un po' stravagante, ma che conosce bene il suo dovere, e raggiunge di slancio la coda dell'ultimo gruppo che sta tentando di aprirsi un varco verso Santa Maria di Sclaunicco. Lo formano il colonnello Bellotti, il porta stendardo e pochi altri dragoni bendati e insanguinati.
Davanti alla loro improvvisa apparizione, che irrompe al galoppo sullo stradone, i mitraglieri nemici tacciono, forse, sorpresi da tanta audacia, forse ammirati da tanto sfortunato valore. Il gruppo si perde lontano. Quò per un poco lo segue, poi se ne va per conto suo, perché il cavaliere non è in grado di guidarlo, ed è già un miracolo se riesce a tenersi in arcione con quella testa sempre più pesante.
Comincia così l'epica cavalcata di Passavanti lungo le strade e per i campi del Veneto, sotto il cielo autunnale gravido di pioggia, fra colonne di truppe in ritirata, fiumane di profughi che cercano di sfuggire all'invasione, cigolio di ruote, rombo di motori.
Quò ha percorso quei luoghi altre volte durante le manovre, e l'istinto lo guida. Il cavaliere, invece, va come in un sogno; ha il pallido viso rigato di sangue, l'uniforme inzuppata di pioggia e sporca di fango, l'elmetto gettato dietro le spalle. Nel delirio della febbre la sua mente ogni tanto si smarrisce nel nulla. Soltanto un'idea rimane netta nel subcosciente: quella che non deve a nessun costo cadere dalla sella, perché sarebbe la fine.

Quanto tempo trascorre cosi? A Passavanti sembra che ora sia notte, poi che sia tornata la luce. Per quattro giorni Quò va senza cercare mai cibo, né acqua. Pare non debba più fermarsi. E invece ecco che un mattino, intorno al cieco momentaneamente sopito, si levano voci note che lo chiamano per nome. Il valoroso Quò è riuscito ad arrivare a Treviso, nella sua caserma, e scalpita ora perché il cavaliere finalmente scenda, e lo lasci libero, povero cavallo schiantato dallo sforzo, di adagiarsi per terra e di morire.


(dalla rivista OGGI, anno XXI - Numero 21 - 27 maggio 1965).

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