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Francesco Gorizzizzo

TESTIMONIANZA DI FRANCESCO GORIZZIZZO
Checo Mulinar classe 1901
Tratta dal libro “No vin durmide une lus”

 Nel primo anno di guerra abbiamo visto tanti militari che arrivavano in paese, si fermavano in riposo dieci o quindici giorni e poi andavano avanti, verso il fronte. In quegli anni la mia famiglia aveva un mulino e facevamo i contadini; a Pozzuolo ci sono stati quelli del 202° Fanteria, il IV Genova, il II Piemonte Reale di Cavalleria. Noi ragazzi andavamo ad aiutarli e per portare anche tutti quei materiali che servivano a fare le fortificazioni nelle zone di combattimento, ci davano cinque lire al giorno e il mangiare. In quegli anni, dal paese, si sentiva sparare da lontano, si sentivano i bombardamenti, si vedevano i palloni frenati italiani che andavano in cielo per controllare, oltre il fronte, le azioni del nemico. Quando arrivavano gli aerei austriaci, che giravano sul fronte, i palloni italiani scendevano di corsa!
Nelle giornate della presa di Gorizia andavamo a vedere tutti i combattimenti sulle colline di via dei Castelli, di notte; là potevamo vedere, il 9 agosto, tutto il putiferio, le granate, le fiammate...
Noi ragazzi dicevamo: «Dove possono trovare là un riparo quei poveri soldati?»
Qualche tempo dopo abbiamo sentito dire che gli Italiani avevano preso Gorizia e i soldati feriti che ritornavano a Pozzuolo, dal fronte, raccontavano che la guerra era proprio brutta con la pioggia, il vento, il freddo ed erano obbligati a rimanere all'aperto, sotto un cespuglio o nella trincea. Facevano venire i brividi i loro racconti! Abbiamo saputo di Caporetto perchè vedevamo molta gente che passava con le mucche, i materassi, le galline sui carri, con donne e bambini. Allora, un giorno, ho chiesto: - Ma dove andate?» - Eh... ragazzo! Proverai dopo, quello che ti potrà succedere!» mi rispondevano quelli che passavano con i carri.
Così ho capito, più tardi, che c'era stata la rotta di Caporetto anche perchè si vedevano venir giù soldati magri, sfiniti, tutti bruciati in faccia perchè i Tedeschi avevano buttato i gas. I militari in ritirata gettavano via i fucili, era la disfatta completa che veniva giù e passava per le strade del paese.
In quei giorni pioveva molto e quei poveri soldati camminavano, sempre avanti; c'è stato il periodo dal 26 al 29 ottobre del 1917 quando vedevamo venir giù soldati che occupavano tutta la strada e poi c'è stata una giornata di pausa del grande passaggio. Il 29 ottobre alcuni reparti della III Armata che arrivavano da via Mortegliano si sono fermati, nel pomeriggio, anche nel nostro mulino. Erano proprio affamati! Mia madre, allora, ha fatto per loro quelle polente che si facevano nelle famiglie di una volta, come da noi che eravamo sedici o diciassette in casa e mangiavamo quasi solo polenta. Mia madre ha preparato per quei soldati sette polente; loro hanno mangiato tutto e più tardi, verso sera, hanno ricevuto l'ordine di partire e raggiungere il paese. Dopo un paio d'ore che se n'erano andati mio padre ed io abbiamo deciso di salire in paese per vedere che cosa fosse successo; siamo partiti e quando siamo arrivati all'osteria da Missana, mio padre ha esclamato: «Ma qui, in paese, non c'è proprio niente...». Allora siamo ritornati indietro, dato che il paese era tranquillo, e sulla strada del mulino abbiamo incontrato il parroco Dall'Ava al quale mio padre ha chiesto: «Allora, signor santolo, che cosa dice, che cosa pensa?».
Il parroco gli ha risposto: «Ma, forse possiamo sperare che siano andati giù tutti i militari per la strada principale e dunque qui non ci dovrebbe essere nulla da temere...». Così, dopo aver salutato don Dall'Ava io e mio padre siamo tornati al mulino, giusto in tempo per vedere una grande confusione, tanti soldati che erano appena arrivati. Un momento dopo sono giunti anche quelli del V Novara che portavano le mostrine bianche e hanno preso in consegna il telefono che si trovava in un'officina vicino al nostro mulino. Infatti il 24 o il 25 ottobre li erano venuti due soldati del genio che avevano avuto il compito di stare al telefono. Sono rimasti al telefono finchè lo hanno lasciato in consegna a quelli del V Novara e loro se la sono data a gambe.
Per tutta la notte del 29 ottobre si sono sentite le pattuglie che venivano su e giù e anche gli spari delle fucilate; al mattino presto del giorno dopo siamo andati a vedere sulla finestra del granaio, dove si vedono ancora i colpi nel muro e all'improvviso c'è arrivata addosso una scarica di mitraglia da portarci via la testa! Siamo scesi giù, allora e proprio in quel momento ho visto arrivare un cavaliere a tutta carica. L'ho riconosciuto, era proprio Elia Rossi Passavanti, un sotto-ufficiale amico della famiglia Fantoni che abitava vicino al mulino, dall'altra parte della roggia ed era fuggita, lasciando abbandonato tutto. Questo sotto-ufficiale è arrivato, di mattina presto, il 30 ottobre, per chiedere informazioni proprio dei Fantoni e mio padre gli ha spiegato: «Sono partiti ancora giovedì! Sono andati giù per l'Italia». Allora Rossi Passavanti ha girato di nuovo il cavallo e su, di corsa, se n'è andato verso il paese. Quando è arrivato forse all'altezza del cimitero, si è scatenato il putiferio per tutta la giornata con a volte i Tedeschi, a volte gli Italiani che attaccavano. I soldati del V Novara che erano nel mulino hanno dato l'ordine di portar fuori quello che c'era per fare la barricata e mi ricordo che un po' più tardi un soldato italiano ci ha detto: «Non dovete aprire la porta del mulino, per nessun motivo!». I soldati italiani si erano disposti anche al di là della roggia e nella stalla per quel combattimento che stava diventando una cosa da pazzi! Mio padre, ogni tanto, quando c'era la sparatoria e il putiferio più grande, ci diceva: «Ragazzi, buttatevi giù a terra, buttatevi a terra!».
Verso le 15,30 o forse le 16,00 del pomeriggio, a forza di insistere, i Tedeschi sono riuciti a buttar giù la porta del mulino e sono entrati, con la baionetta puntata: "Talienisch? Talienisch?» chiedevano a noi, gridando. Allora io ho detto: «Sì, là... i Talienisch sono scappati di là.. .». Allora, dal mulino, i Tedeschi sono passati sul ponte della roggia che conduceva nell'orto vicino alla casa di Piero Fantoni. Quando sono arrivati là i nostri soldati li hanno facilmente presi prigionieri e i Tedeschi hanno buttato giù i fucili e gli zaini e si sono arresi. Un gruppo di soldati italiani del V Novara è tornato da noi con quei prigionieri, dicendo: «Avete visto come si fanno prigionieri i Tedeschi?». E io, invece, tra me e me, dicevo: «Bravo... perchè ho detto io che voi non c'eravate là, se no...». C'è stata anche un po' di pausa nel combattimento, in quel momento, ma subito dopo è scoppiato un inferno: sparatorie continue, bombe a mano; i nostri, con la artiglieria, sparavano in via dei Vieris. Verso sera hanno fatto l'ultima carica quelli del V Novara e ne è venuta fuori una baraonda incredibile con i Tedeschi che avanzavano un po' e gli Italiani che rispondevano colpo su colpo. Da un momento all'altro sono arrivati un gruppo di Italiani a cavallo, usciti da un ponte sulla roggia, correndo a tutta carica, con lo stendardo davanti. All'improvviso il cavallo che era avanti a questo gruppo di cinque o sei soldati, è caduto a rotoloni e con lui anche il cavaliere. .È morto!» ho pensato, ma in ogni caso, l'ho raccolto dalla strada e l'ho portato dentro; l'abbiamo medicato nel mulino e poi lo abbiamo messo nella stalla. Questo povero giovane aveva i gradi, sarà stato caporale o forse caporal maggiore, ma durante tutta la notte si è lamentato, ha penato, come altri feriti che erano lì, nella stalla del nostro mulino.
La mattina dopo sono arrivati due tedeschi, uno era a cavallo e l'altro lo seguiva a piedi; uno aveva tre stellette, l'altro era un semplice graduato. Hanno discusso un po' tra loro, poi uno è andato avanti, a cavallo, verso Mortegliano, quell'altro si è fermato, da noi, nel mulino. Ha prima incominciato a curiosare dalla parte dell'abitazione di Pieri Fanton; guardava di qua, guardava di là, ha intravisto una porta che era chiusa e allora, per aprirla, ha dato un grande calcio ed è così passato, arrivando anche nelle nostre camere. io, come uno sciocco, gli andavo sempre dietro. Questo militare tedesco è sceso dai piani superiori ed è entrato in casa dove i porta-feriti stavano portando via i feriti tedeschi; ci ha fatto capire che voleva andare a vedere l'interno dell'officina elettrica e anche se mio padre gli aveva spiegato che non era lui il padrone di quel locale, il tedesco gli ha imposto di seguirlo e mio padre ha dovuto cedere. Con un calcio alla porta il militare è riuscito a passare anche la stanza sulla roggia e a continuare la perlustrazione con mio padre davanti, un paio di Tedeschi dietro e io dietro a loro. Arrivati nell' officina loro guardavano da ogni parte e sono andati a vedere anche la stanza più piccola, che si trovava in fondo. Proprio laggiù hanno trovato il telefono e allora hanno incominciato a gridare; un graduato tedesco ha anche mollato due grandi sberle a mio padre forse perchè pensava che nel momento della battaglia ci fossero stati dei collegamenti tra il V Novara, che era nel mulino, e il centro del paese dove si trovavano gli altri reparti italiani. lo sono subito scappato fuori di corsa da là e sono andato a chiamare lo zio Giovanni Odul, dicendogli: «Zio, zio! Stanno picchiando mio padre nell'officina vicino al mulino!». io ero molto sconfortato e lui, poveretto, forse anche per questo è venuto fino al mulino per vedere quello che stava succedendo. Ma, quando è entrato nell'officina, un tedesco gli ha dato una bastonata sulla schiena e lo ha buttato giù, lungo disteso, per terra. Mio zio, comunque, è arrivato a scappare, ma mio padre, invece, non ce l'ha fatta e così, subito dopo, i Tedeschi lo hanno portato di nuovo fuori, hanno ripassato il ponte sulla roggia, con me sempre dietro.. Sono entrati nel mulino, dove stavano lavorando ancora alcuni portaferiti; più avanti hanno incontrato mia madre che aveva in braccio mia sorella Vitalina ed era incinta. Mia madre ha chiesto a mio padre che era diventato bianco come una pezza: «Dove vai, Blas?». Lui era senza parole e forse sapeva già del suo destino.
Ad ogni modo il gruppo con mio padre, i Tedeschi e me sempre dietro ha continuato a procedere; quando poi è arrivato agli scalini che portavano giù, verso la stalla dei cavalli, uno dei militari si è girato di colpo verso me, ha estratto la pistola e ha fatto come per spararmi. Mi è venuto come un po' di svenimento, mi sono fermato e sono scappato indietro salendo le scale che portavano nelle camere. Sono entrato in quella di mio padre che aveva una finestra che dava sulla strada in direzione di Mortegliano; mi sono affacciato fuori e proprio in quel momento ho visto ammazzare mio padre. Allora, di nuovo, sono sceso, di corsa; in casa avevano sentito sparare e mia madre mi ha chiesto: "Che cos'è successo, Checo?». "Ah, niente... niente...! ' le ho risposto io. Mi sono allontanato di corsa dal mulino e sono scappato in paese, saltando morti, saltando ostacoli, saltando cavalli colpiti e a terra di qua o di là, lungo la strada. Quando sono arrivato all'altezza dell'abitazione di Meni Menai non ho potuto procedere oltre, perchè c'erano ancora le barricate a chiudere la via. Sono andato allora da dietro gli orti, dalla parte del cortile dei Minighin e ho rotto la palizzata, entrando nella casa dove abitava Vigj Garzel con i figli dei quali ero amico. Il padre di questi ragazzi mi ha visto arrivare tutto sconvolto e, allora, mi ha chiesto: "Che cos'hai, che cosa ti è successo, Checo?». lo ho raccontato tutto quello che avevo visto nel mulino e gli ho chiesto: "Portatemi da mia zia Itala, perchè non ne posso proprio più!»
Dopo la morte di mio padre, comunque, i Tedeschi ci hanno rispettati e hanno mandato nel mulino le guardie: guai a chi veniva per farci dispetti! Nel paese i Tedeschi andavano a requisire e portavano via le mucche, i cavalli, i maiali; noi, ad esempio, che avevamo quattro mucche e due cavalli, siamo rimasti con una mucca sola. Avevamo anche una manza che avevamo nascosto in un fosso in fondo a Bresc, in mezzo alle acacie; andavamo a portarle da mangiare di notte, quando nessuno ci poteva vedere. Dopo l'arrivo dei Tedeschi, nel 1917 , il nostro mulino funzionava con la tessera e così anche quello del borgo di via S. Maria; ma quella famiglia che ha avuto una spiata fatta ai Tedeschi, era stata accusata dal loro comando di aver venduto più farina del consentito alla povera gente del paese e così i Tedeschi hanno chiuso quel mulino.
Io sono stato costretto a lavorare giorno e notte per accontentare sia i Tedeschi, sia la popolazione. La gente del paese veniva anche di notte; arrivavano contadini a macinare anche da S. Maria. Per tentare di far scacciare la fame a questa povera gente impiegavo qualche giornata in più per servire i Tedeschi e, intanto, accontentavo anche il popolo.
Arrivavano anche di notte con le carriole, che avevano sotto un po' d'erba, nel mezzo granturco, sopra altra erba per nasconderlo e così, dopo essere stati al mulino, potevano tornare a casa con un po' di farina per i loro figli.
Ricordo che nei primi giorni di ottobre del 1918, forse verso l'una e mezza dopo pranzo, abbiamo visto volare degli aerei sulla zona vicina al mulino; volavano piuttosto bassi e noi li abbiamo salutati; dagli apparecchi hanno risposto al saluto e allora abbiamo capito che erano i primi Italiani che ritornavano! Siamo andati su, nel paese, e abbiamo visto arrivare le truppe italiane a cavallo da via Carpeneto. Il comando tedesco era, quella volta, di fronte alla posta attuale, nel locale dove si teneva anche la frasca. Quando gli Italiani sono arrivati è uscito di lì un sottotenente tedesco e il primo cavaliere italiano, davanti al resto dello squadrone, gli ha dato la mano, si sono abbracciati e insieme hanno esclamato: «Guerra finita! ».

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